venerdì 1 maggio 2015

Le crepe delle frontiere






L’ennesima tragedia del Mediterraneo ci insegna, o dovrebbe insegnarci, che la questione immigrazione non è affatto un’emergenza. Si tratta di un fenomeno di lungo periodo che mette in discussione il modo stesso di intendere noi stessi e la società in cui viviamo. E a ben vedere il modo in cui viene affrontata tale questione implica delle conseguenze profonde, ha degli effetti duraturi sulla struttura dei diritti sociali e civili del Paese e dell’Europa intera. Le politiche sull’immigrazione si riflettono dunque sulla nostra vita di cittadini comunitari.

Ecco perché quei morti del Mediterraneo non rappresentano solo una questione morale, non sono solo un caso su cui ognuno di noi è chiamato singolarmente a fare i conti, con la propria personale sensibilità. E non si tratta nemmeno di una questione prettamente etica: se pur una riflessione di principio sul significato della strage permanente dei migranti ha un valore immenso e imprescindibile, questa rischia di rimanere una pura riflessione astratta, senza risvolti concreti in grado di modificare il corso degli eventi. Il nodo è invece pienamente politico, perché affrontare la questione immigrazione significa decidere come vogliamo vivere e quale futuro vogliamo costruire.

Innanzitutto, va rilevato che la distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo è forzata. Non si tratta necessariamente di chi fugge dalla guerra e/o dalla fame. Come per i nostri emigranti del secolo scorso, spesso sono l’immobilità sociale e le prospettive inesistenti a far nascere il desiderio di mettere radici altrove. Anche la mancanza di libertà è un fattore determinante. Come lo sono gli effetti nefasti (ambientali ed economici) dell’invadente presenza occidentale nei Sud del mondo. In ogni modo, bisogna riconoscere che i motivi dell’emigrazione sono talmente forti da portare le persone a rischiare la propria vita. Ed è proprio quello che avviene nelle Commissioni per il riconoscimento dello status di rifugiato: in base ai dati forniti dal ministero dell’Interno, tra il 2005 e il 2012 l’8,55% dei richiedenti ha ottenuto l’asilo, mentre al 43% è stata comunque riconosciuta una protezione sussidiaria o per motivi umanitari, senza dimenticare che oltre il 10% dei migranti ottiene un diniego poiché risulta irreperibile al termine del lungo iter burocratico.

Nonostante l’approccio securitario che ha portato alla costruzione della “fortezza Europa”, è l’Ue stessa a indicare un cambio di rotta determinante: Il Consiglio europeo e la Commissione europea con il GAMM (Global approach to migration and mobility, 2011) invitano gli stati a considerare la migrazione come un processo circolare, ovvero in termini di mobilità, che è datato e programmabile. Un paradigma che imporrebbe un sistema di visti e di ingressi diversificato, in modo da massimizzare gli effetti positivi della migrazione. Al contrario quello che l’Italia e molti stati europei continuano a fare è guardare alle migrazioni come un fenomeno emergenziale, senza riconoscere gli impatti positivi che ha soprattutto sul sistema economico, politico e sociale.

A questa domanda di mobilità internazionale corrisponde troppo spesso un governo irresponsabile delle migrazioni. Gli arrivi via mare, che sono una minima percentuale degli ingressi complessivi, continuano a essere percepiti come fenomeni incontrollabili e imprevisti da alcuni, come invasioni barbariche da altri. Invece di canalizzare i flussi internazionali si costruisce un muro e, come l’acqua di fronte agli ostacoli, le persone si infilano tra le crepe del sistema per raggiungere il loro obiettivo. La chiusura quasi totale dei canali di ingresso regolari per i migranti economici ha portato ai viaggi in mare e al moltiplicarsi delle richieste di asilo, presentate non solo da chi fugge da guerre e persecuzioni ma anche da chi fugge dalla fame, dalle devastazioni ambientali, dalla crisi economica generata dal venir meno dei sistemi economici e sociali di sussistenza, dalla mancanza di libertà e di prospettive.

Il punto centrale della riflessione riguarda l’inefficacia – oltre alla disumanità e all’ingiustizia - delle politiche di chiusura: il sistema delle espulsioni è palesemente fallace, in quanto sono migliaia i migranti che non possono essere rimpatriati perché non identificabili, mentre la pratica dei respingimenti in mare e gli accordi di riammissione sono stati duramente sanzionati dalla Corte di Strasburgo. In altri termini, considerato che gli unici a non arrivare sono quelli che muoiono in mare, i naufragi rappresentano quindi l’unica strategia di riduzione dei flussi migratori messa in campo da Italia e Ue.

Eppure esisterebbero gli strumenti per invertire questa tendenza che sta spezzando migliaia di vite. È necessario un sistema di gestione delle richieste di asilo che non costringa i migranti a rischiare la morte per cercare salvezza: le ambasciate devono mettere a disposizione i propri uffici, creando così dei canali umanitari, e bisogna rafforzare il sistema di resettlement (reinsediamento) dell’Unhcr, fornendo maggiori disponibilità in modo da evitare che i richiedenti asilo aspettino anni nei campi profughi prima di essere trasferiti. L'Italia può e deve fare la sua parte attivando subito un piano nautico di ricerca e salvataggio applicando la Convenzione SAR(Search and Rescue) di cui è firmataria, che metta in sicurezza i viaggi disperati dei migranti nel canale di Sicilia. C'è una enorme responsabilità che il governo italiano si assume se non ci si muove in tal senso.

In termini di politica delle migrazioni, determinante di un cambio di passo sarebbe una rivisitazione del sistema d’asilo, ancorato alle logiche della guerra fredda, il superamento della distinzione netta tra migranti economici e rifugiati nell'ottica di costruire un sistema di ingressi legale che tenga conto delle domande effettive di ingresso e che sia accessibile a quanti vogliano emigrare.

Ma soprattutto questo tema deve diventare oggetto di "buona politica". Bisogna cominciare a ragionare senza l'alibi del consenso "popolare" in molti casi manipolato e ingannato ad interesse elettorale. C'è bisogno di coraggio per salvare quelle vite e per mettere fine all'ingiustizia che permette la mobilità solo per i cittadini occidentali dei paesi ricchi.


madiba mandela project
action diritti in movimento

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